fbpx

Uomini-massa digitali

Il XX secolo è stato teatro dell’avvento della società di massa e di conseguenza dell’uomo-massa al pieno potere sociale, specchio dei costumi collettivi della vita pubblica – intellettuale, morale, economica, politica e religiosa. Per il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset «massa è tutto ciò che non valuta se stesso», è una categoria trasversale, non identificabile con una particolare classe sociale, è un “fatto psicologico”, esistenziale, un modo di vivere e concepire la vita. L’uomo-massa è l’uomo medio, l’uomo non particolarmente qualificato, colui che si adegua al sistema vitale dominante e con esso condivide desideri, idee, comportamenti. Secondo il saggio di Ortega del 1930, La ribellione delle masse, a produrre questi tipi di uomo e società è stato l’Ottocento con lo straordinario sviluppo tecnico che lo ha contrassegnato, sintesi dei ferventi studi scientifici dei secoli precedenti e base per la democrazia liberale, forma di governo duramente conquistata attraverso rivoluzioni intellettuali ma anche sanguinarie. La legge dell’industrialismo e della teorica uguaglianza di opportunità mette in mano all’uomo – che tra il 1800 e il 1914, per questi stessi motivi, ha assistito a un incremento demografico di enormi proporzioni – gli strumenti per “godersi” la vita moderna, ma non la sensibilità degli sforzi storici che hanno portato alla loro disponibilità.


L’uomo-massa non avverte più la vita come fatica e pericolo, ma non avendo gli strumenti intellettuali per capire il cambiamento storico, non se ne fa un problema e si dedica a succhiare il più possibile il succo della vita così come gli viene proposto dalla pubblicità


Tale discrasia, dovuta all’impossibilità di tenere il passo della smania di produzione capitalistica e della sempre più accentuata specializzazione scientifica, causante anche la scollatura tra scienziati-ricercatori e tecnici (ed è per questo che il tecnico è il primo tra gli uomini-massa, poiché utilizza la tecnica di cui è competente senza chiedersi da dove venga), è la madre dell’uomo-massa, tipologia umana ora dominante. A configurarsi è così l’epoca di quello che Ortega chiama il “signorino soddisfatto”, un “bimbo” viziato dal mondo circostante, che ritiene tutto ciò che esiste e di cui può usufruire (dalle automobili ai bancomat) come “natura”, e non come cultura acquisita attraverso il lavoro e le intuizioni di uomini geniali. L’uomo-massa vive nella bambagia, non avverte più la vita come fatica e pericolo, ma non avendo gli strumenti intellettuali per capire il cambiamento storico, non se ne fa un problema e si dedica a succhiare il più possibile il succo della vita così come gli viene proposto dalla pubblicità. A un aumento di vitalità e possibilità si contrappone quindi un senso di “volgarità” e un diritto a esercitarla caratteristico dell’uomo-massa, il quale essendo ora in maggioranza può far valere il suo acritico sistema di valori in qualsiasi luogo.


Il raduno di massa mascherato nell’episodio finale della prima stagione di Mr Robot (2015) intitolato eps1.9_zer0-day.avi

Il XXI secolo è senza dubbio – perlomeno questi primi vent’anni – l’epoca del digitale, insieme di tecnologie che ha permesso il consolidamento del potere sociale dell’uomo-massa. Siamo tutti, anche se inconsapevoli o restii ad ammetterlo, uomini-massa digitali: il capitalismo consumista, servendosi del digitale come nuova linfa vitale, ha standardizzato i nostri valori, i nostri desideri, i nostri comportamenti. E soprattutto, il nostro utilizzo del medium digitale così come ho provato a sintetizzarlo nei capitoli precedenti, non ha fatto altro che renderci ancora più viziati e immemori del nostro passato. Pretendiamo tutto e lo pretendiamo subito, rivoluzionando così l’approccio umano nei confronti del mondo, dagli oggetti alla conoscenza fino alle persone. Con Amazon, ad esempio, possiamo ricevere un qualsiasi oggetto in poche ore restando comodamente seduti sul nostro divano; con Google possiamo potenzialmente sapere tutto di tutto con una semplice ricerca di pochi secondi; con Facebook et similia possiamo comunicare con chiunque e in qualsiasi luogo senza troppe difficoltà. Anche qui, tutto sembra facile e “naturale”. La tecnica, come da promessa, ha aperto all’uomo sempre più possibilità, definendone però i desideri e le inclinazioni. Potremmo più vivere senza queste comodità? Una vita “analogica” ci sembra ormai impossibile e inutilmente faticosa. Peccato però che è proprio questo tipo di “fatica” a dettare il senso profondo delle nostre vite, diventate “volgari” e omologate. Il fatto è che la felicità – obiettivo a cui tutti tendiamo – è oggi identificata con l’immediatezza, la facilità, la velocità. Ma è una contraddizione in termini, perché è la stessa esperienza a insegnarci che più una cosa è difficile e più il suo conseguimento apporterà soddisfazione e quindi felicità. La difficoltà, e dunque l’impegno che ci mettiamo per affrontarla, è direttamente proporzionale alla qualità dell’appagamento.


La tecnica ha aperto all’uomo sempre più possibilità, definendone però i desideri e le inclinazioni. Potremmo più vivere senza queste comodità?


Ecco perché i “mi piace” ricevuti su Facebook sono solo un surrogato di felicità, qualcosa che ci appaga nell’immediato e, appunto perché qualitativamente effimeri, incapaci di renderci realmente felici – l’unico modo che abbiamo per non farne svanire l’incantesimo è riceverne sempre di più, entrare in un circolo vizioso senza scampo, diventandone, in sostanza, dipendenti. È questa la vita che vogliamo? Non voglio dire che il mondo dovrebbe tornare indietro a prima dell’avvento del digitale “per tutti” (e della società di massa), ma soltanto che l’uso acritico delle tecnologie digitali – e sono sempre la loro facilità e immediatezza intrinseche a incentivarne l’acriticità –, riprogrammando il nostro modo di stare al mondo, a lungo termine ci rende infelici o solo illusoriamente felici, se poi non sappiamo conservare ciò che ha realmente valore: tempo, relazioni, pensiero, conoscenza, consapevolezza. Ed è un paradosso perché il loro sviluppo, come tutti gli sviluppi della tecnica umana, è nato col fine ultimo di migliorare la condizione esistenziale degli uomini, per la loro felicità in senso lato. Ma è chiaro che, da una parte, non tutti hanno in testa gli stessi concetti di “progresso” e felicità e, dall’altra, che dare in mano a qualcuno un’arma di tale portata senza insegnargli come si usa non può che produrre questi risultati – di qui la necessità di una digital media education a tutti i livelli e per tutte le età, a partire naturalmente dalle scuole.


Un fotogramma della serie tv SKAM Italia, prodotto da TIM Vision e a partire dalla quarta stagione da Netflix, che racconta la quotidianità digitale delle nuove generazioni

Se il mondo degli anni Trenta di Ortega procedeva «come il più infelice che ci sia stato: sempre alla deriva», che cosa dovremmo dire del nostro? Siamo smarriti, insoddisfatti, infelici. Più il digitale ci illude di essere immersi nel mondo, interconnessi e iperconnessi, più ci ritroviamo frammentari (moltiplicati in centinaia di selfie che fluttuano nello spazio virtuale), senza punti di riferimento duraturi, senza una cornice di significato unitario entro la quale poter costruire i nostri percorsi esistenziali e le nostre identità, anzi, peggio, con dei significati infingardi – immediatezza, apparenza, consumo – che, in luogo di portarci verso la terra promessa della nostra realizzazione esistenziale, ci conducono su isole deserte, abbandonandoci a noi stessi.



Questo brano è un estratto da Digito dunque siamo. Piccolo manuale filosofico per difendersi dalle illusioni digitali di Stefano Scrima, Castelvecchi editore ©2019 Lit Edizioni s.a.s. Per gentile concessione
Il libro è acquistabile qui► Digito dunque siamo – Castelvecchi