Brandon Cronenberg | Nel nome del padre
Il cinema del figlio d’arte di David Cronenberg e l’eredità del body horror del regista canadese, tra virus, maschere e riflessioni sull’identità
Lo sappiamo, le colpe dei padri non dovrebbero ricadere sui figli, così come non dovrebbero ricadervi i meriti. Eppure non è facile evitare i paragoni continui nel caso di Brandon Cronenberg. Perché il figlio di David Cronenberg ha deciso di intraprendere una carriera sulla scia di ciò che il padre ha fatto dalla fine degli anni ’60 a oggi, riprendendone temi, motivi, ossessioni visive, ma spostandole in un contesto contemporaneo soprattutto in termini di realizzazione. In questo modo, la sua diventa una riflessione su come i corpi e la loro narrazione si siano evoluti nel corso dei decenni, e al tempo stesso un ragionamento sulla messinscena di quei corpi, sul modo in cui gli effetti speciali siano diventati la realizzazione della Nuova Carne, profetizzata da David, per Hollywood e zone limitrofe (Brandon è canadese e opera per vie indipendenti).
Nella prima parte della sua vita Cronenberg Jr. non sembra interessato al cinema, sembra più un bibliofilo, un aspirante scrittore, oppure pittore o musicista, ma proprio come le storie che circolano in famiglia, il cinema agisce come un virus e infetta il 28enne Brandon che, nel 2008, fa un sogno e decide di partire da lì per realizzare il suo primo cortometraggio, Broken Tulips, da cui derivano le idee per il suo primo lungometraggio, Antiviral, realizzato nel 2012, e presentato nella sezione Un Certain Regard di Cannes, mentre il padre in concorso presentava Cosmopolis (☛ La catarsi dell’inconscio).
Antiviral racconta di una clinica che raccoglie malattie e virus delle star e poi le rivende iniettandole agli acquirenti: il protagonista, interpretato da Caleb Landry Jones, è un impiegato della clinica che un giorno si innamora di Hannah Geist, una delle celebrità che alla clinica cedono virus e cellule, e del male che pare affliggerla. Luoghi di cura che diventano luoghi di malattia e morte, celebrità e feticismo estremo (c’è anche una clinica che realizza carne commestibile a partire dalle cellule dei VIP), scenografie e colori asettici, una forte atmosfera arty in cui agiscono personaggi febbrili: sembra un riassunto o un bignami, ma se invece fosse un passaggio di consegne? Se l’apparente manierismo fosse in realtà una prosecuzione del lavoro paterno, come fanno i figli d’arte quando i padri lasciano loro la bottega e il lavoro di una vita?
Caleb Landry Jones in Antiviral (2012) di Brandon Cronenberg
Come il suo protagonista, il film non sa dove andare, però lascia intuire qualcosa di interessante, non tanto per l’opera in sé, quanto per la pratica che c’è dietro: il mondo del cinema è pieno di figli d’arte tra gli attori e i tecnici o le maestranze di vario tipo, perché appunto un lavoro artigianale si trasmette da padre in figlio, ma nei lavori più “immaginifici” come quello della regia ci si va più cauti, accade di meno per una serie di ragioni che non staremo qui a indagare. Le eccezioni sono poche, fragorose, come quella di Sofia Coppola, ma quasi tutti i registi junior tendono a cercare un distacco quasi totale dallo stile dei genitori. Nel caso di Cronenberg no, si ha la sensazione strana, a tratti spiacevole a tratti invece calorosa d’affetto filiale, di una continuazione cosciente, di un aggiornamento costante di una pratica e di un immaginario, un aggiornamento che diventa anche una riflessione pratica sulle nuove tecnologie con cui il lavoro viene svolto.
Con Brandon Cronenberg si ha la sensazione di una continuazione cosciente del lavoro del padre, di un aggiornamento costante di una pratica e di un immaginario
Se Cronenberg padre ha inventato il body horror e dato ai trucchi prostetici, agli effetti speciali fatto di trucco, gomma e materiale simil-organico una dignità poetica dentro il mondo fisico e scultoreo che gli anni ’80 avrebbero voluto creare, il figlio ha spostato il discorso da un’altra parte, ha percepito come i tòpoi paterni abbiano cambiato strada e li ha incorporati in un cinema vicino all’indie contemporaneo, alle tendenze visive del nuovo millennio, partendo dalla tecnica e dagli effetti speciali, vicini al fisico, ma aperti al digitale. Brandon infatti ha colto come i Duemila siano gli anni del non-fisico, del non-corpo, in cui il digitale ha tolto peso all’analogico e alla materia per donarlo alla ricostruzione virtuale, alla reinvenzione dell’organico, inventando letteralmente una nuova carne fatta di pixel, più che di cellule. Non è un caso, o forse sì ma ci piace pensare il contrario, che la prima opera del regista esca lo stesso anno in cui Iron Man dà il via al Marvel Cinematic Universe.
Andrea Riseborough è la killer Tasya Vos in Possessor (2020) di Brandon Cronenberg
Se questo percorso è poco chiaro nel primo film, è più evidente nel secondo, Possessor, che arriva otto anni dopo l’esordio. Anche questo è la filiazione di un cortometraggio, dell’anno precedente, Please Speak Continuously and Describe Your Experiences as They Come to You (2019), a partire da esperimenti di regia e messinscena che Cronenberg fa col direttore della fotografia Karim Hussain. Il lungometraggio racconta di una killer a contratto, con il volto di Andrea Riseborough, che uccide sfruttando i corpi di altre persone, entrando nella loro mente attraverso un impianto; i problemi cominciano a crescere quando comincia a sentirsi distaccata dalla propria identità e dalla propria vita, mettendo a rischio il proprio lavoro e la propria incolumità.
Il film parla della Nuova Mente creata dalla nuova carne, gli imperi tecnologici sono partiti dal lavoro sui corpi per arrivare a controllare i nostri cervelli e la nostra psiche, la liquidità delle nostre identità può essere una scelta consapevole, ma forse – sembra riflettere Cronenberg che per fortuna di rado ha voglia di fare il filosofo – è anche un presidio su cui si giocano le guerre del neo-capitalismo. Consapevole è di sicuro, per Cronenberg, la forma delle immagini e il loro senso; gli anni di apparente inattività hanno portato in dote a Possessor una raffinatezza maggiore nel lavoro figurativo, nello sfruttare il potenziale espressivo e comunicativo delle immagini, la forma si è fatta più mobile e penetrante e riesce a comunicare quegli spazi di realtà ai confini del possibile e dell’esistente, in un immaginario che sembra agilmente passare dal futuro prossimo al presente alternativo spiazzando lo spettatore. Il senso della violenza, il gusto fanatico che assume per chi la commette si innestano in un discorso psicologico che fa parte del contemporaneo: la fluidità di ciò che siamo è una nostra esigenza di espressione o un’altra costruzione sociale? Chi è che governa i nostri corpi, di chi sono le menti che gestiscono le nostre azioni?
Un fotogramma di Possessor (2020)
Il lavoro che Cronenberg fa sull’immagine è ancora più complesso, anzi supera i limiti del debutto proprio perché, anziché giocare su look e scenografie che richiamano il passato di famiglia, si concentra sullo straniamento della visione e della percezione: cosa significa essere sé stessi quando di lavoro sei un altro? Una domanda a cui il film risponde con le immagini, con le soggettive di una donna che si guarda sempre attraverso altri occhi e a cui lo specchio non restituisce mai la stessa immagine: Tasya, la killer protagonista, diventa quasi un emblema del mondo mediatico contemporaneo, delle maschere con cui dobbiamo (e amiamo) abbigliarci e che ci rendono poi complicato se non impossibile riconoscerci. Possessor è probabilmente l’opera migliore realizzata finora dal regista canadese, perché è quella in cui il lavoro visivo, la cura stilistica, formale e figurativa servono a esprimere qualcosa che va oltre la loro stessa natura, come dimostra il lavoro sul fuori fuoco e i filtri distorcenti che Hussain usa per mostrare la vaghezza percettiva della protagonista.
Cosa significa essere sé stessi quando di lavoro sei un altro? Una domanda a cui Possessor risponde con le immagini, con le soggettive di una donna che si guarda sempre attraverso altri occhi
Il rapporto tra il sé e l’altro, figure identitarie ormai corrotte o malate, diviene un cardine del percorso di Cronenberg, così che possiamo tracciare una direttrice che va dal rapporto morboso con la parte più intima e nascosta dell’altro (la malattia che è anche un sintomo della sua notorietà in Antiviral), passa per lo scontro con la propria natura e quella altrui (in Possessor) e approda alla messinscena del motto sartriano “L’enfer c’est les autres”, l’inferno sono gli altri, nel suo ultimo film. Infinity Pool (2023), il suo film più recente, racconta di un uomo senza qualità (per restare ai grandi scrittori del Novecento) perso in mezzo a un gruppo di turisti che lo coinvolgono in attività controverse dentro un paese per cui si può morire per interposta persona. Infatti, laddove la giustizia punisce con la pena di morte i reati compiuti dai turisti – una risposta radicale al colonialismo vacanziero – i più ricchi possono sfruttare la scienza a proprio fine, creando dei cloni che muoiano al posto loro. Unica condizione: guardare in faccia il proprio alter ego morire.
Mia Goth e Alexander Skarsgård, dietro la maschera, in Infinity Pool (2023) di Brandon Cronenberg
La sceneggiatura dello stesso Cronenberg, che ha sempre scritto in solitaria i propri film, è forse la più complessa tra quelle realizzate e parte da una situazione tipica e prevedibile, quasi un luogo comune della satira, ovvero un villaggio vacanze per ricchi viziati. Un villaggio che però assume da subito sfumature di disagio, non per ciò che ci è mostrato, ma per come il regista e il suo direttore della fotografia mettono i personaggi e gli ambienti nel quadro. Quel disagio viaggia così su un triplo binario: quello politico, con scene di lotta di classe da cui emerge il paternalismo bianco e occidentale, quello socio-culturale, con la descrizione subdola e infernale della borghesia vacanziera e dell’inferno in cui sceglie di vivere, che coltiva giorno dopo giorno, e quello intimo, che è di sicuro il lato più interessante di Infinity Pool.
Dopo aver mostrato la sparizione dell’Io, a partire dall’immagine del sé, in Possessor, qui il regista ribalta la riflessione, ponendo lo sguardo sulla paradossale moltiplicazione delle nostre immagini, sulla loro onnipresenza e su come le costanti repliche di noi tolgano sostanza alla nostra identità. Come a dire, l’essenza delle persone è fragile, labile ed evanescente, le immagini non la fortificano, sia che ci rimandino altri connotati sia che non facciano altro che reiterarli. La chiave è sempre la psiche, che tradisce e rivela prima della tecnologia, le sue ferite e il nostro modo inadeguato di curarle.
Brandon Cronenberg – il cui prossimo lavoro sarà un adattamento seriale di Super-Cannes (2000), romanzo del più cronenberghiano degli scrittori, J.G. Ballard – è partito là dove il padre è arrivato in cinquant’anni di cinema. Sfida i paragoni e le similitudini, non ha intenzione di tenere alte bandiere o vessilli, ha solo scelto di prendersi carico di un’opera che il padre, volente o nolente, gli ha lasciato in eredità. Un modo di intendere l’arte che cozza contro il diktat dell’originalità, contro il modo positivista e forse accademico con cui abbiamo sempre pensato alla creazione, e che forse, anche per questo, ci incuriosisce e affascina.