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November | Per un cinema d’assalto

Su November – I cinque giorni dopo il Bataclan di Cédric Jimenez e il confine tra cinema e politica, film di genere e riflessione sociale nella storia della caccia ai terroristi degli attentati di Parigi

Si apre con una scritta November – I cinque giorni dopo il Bataclan: «Il film è ispirato a fatti reali, ma resta una fiction. Non intende essere un apprezzamento sui fatti giudiziari». Sembra superflua come didascalia, e lo è ai fini del godimento del film, ma forse il regista Cédric Jimenez ha voluto mettere le mani avanti, visto che il suo precedente film Bac Nord è stato da più parti accusato di essere reazionario e di lodare l’operato dei poliziotti nonostante raccontasse di uno scandalo che aveva travolto la polizia marsigliese. Bac Nord è un poliziesco muscolare, baciato da un notevole successo (disponibile in Italia su Netflix), mentre il suo nuovo film racconta un’altra storia vera, meno romanzata e sicuramente più delicata nei contenuti: come dice il sottotitolo italiano, si tratta dei cinque giorni che seguirono gli attentati a Parigi nel 2015, quelli che non colpirono solo il Bataclan, ma anche lo Stade de France e alcuni locali della capitale francese. Questi cinque giorni sono visti dagli occhi della squadra anti-terrorismo capitanata da Jean Dujardin che indagano tra la Francia, il Marocco e il Belgio per fermare la rete che ha progettato ed eseguito quella serie di attacchi coordinati.

Insieme a Olivier Demangel sceneggiatore, Jimenez smorza i toni sopra le righe dei suoi film precedenti, l’immaginario del polar francese degli anni Duemila e cerca di concentrarsi solo sul lato investigativo della storia, partendo dai fatti documentari e traendone un racconto e una struttura drammaturgica. November parte dalla cronaca e la tiene come scheletro di un film a suo modo spettacolare, che cerca di tenere fuori la psicologia e la politica per mostrare solo la procedura, l’azione e le ragioni dello Stato, rischiando – in modo calcolato – di venire scambiato per superficiale, senza approfondimenti dei personaggi e delle loro motivazioni.


Uno stand-off da Bac Nord (2020) di Cedric Jimenez con protagonista Gilles Lellouche (il secondo da sinistra)


November non è interessato a questi aspetti, preferisce il ritmo incessante delle operazioni, della detection, il movimento dei personaggi dentro spazi angusti e delimitati, la paura indefinita della prossima esplosione, un ritmo e una suspense costanti con cui Jimenez è decisamente più a suo agio che con la riflessione geopolitica o anche solo sociale – il limite e la forza di ogni suo film – e di questo bisogna dar merito al lavoro eccellente della montatrice Laure Gardette. In un modo o nell’altro, però, la politica che lanci dalla finestra rientra dalla porta, specie se parli di attentati e del rapporto che la Francia ha con i musulmani, con la radicalizzazione alle porte o a volte in seno ai suoi stessi confini.


November fa una scelta di fondo che è anche politica, quella di delimitare la narrazione a un momento preciso, da cui le implicazioni storiche e ideologiche restano fuori


Nonostante François Hollande, presidente della Repubblica all’epoca della strage (137 morti, 368 feriti), resti sullo sfondo, nei televisori che ne rimandano l’immagine e le parole, November fa una scelta di fondo che è anche politica, quella di delimitare la narrazione a un momento preciso, da cui le implicazioni storiche e ideologiche restano fuori. Quello che racconta il film è di fatto uno dei pochi successi dell’intelligence francese nel periodo che invece fin dall’inizio del 2015 non riuscì a contrastare il sotterraneo lavoro dei terroristi che colpirono a gennaio Charlie Hebdo e poi i luoghi del divertimento e del tempo libero, successo in ogni caso costellato da errori e imprecisioni. Dopo tutta una serie di falle, documentata dagli atti e dai registri, il film ricostruisce quella vittoria i cui frutti sono arrivati nell’estate del 2022 con la fine del processo contro gli esecutori degli attentati reclamati dall’ISIS che ha condannato 19 persone su 20 imputati.


Jean Dujardin è Fred in November – I cinque giorni dopo il Bataclan (2023)


Sia chiaro, non c’è esaltazione del lavoro delle forze dell’ordine, manca per esempio quella mono-dimensionalità “ideologica” che nuoceva allo stesso senso del racconto di Bac Nord ritraendo i poliziotti incriminati come vittime di un sistema più marcio di loro, ma non c’è nemmeno quella necessità di approfondire, di rendere la complessità del momento e di chi vi ha partecipato: c’è la cronaca, scandita in modo battente, c’è il rispetto per le vittime che non impedisce la narrazione per un grande pubblico; soprattutto però, c’è il senso del lavoro di un’istituzione e la gratitudine, non acritica né propagandistica (basterebbe vedere il modo in cui sono descritti i problemi interni alle forze in campo, o il rapporto aspro e traditore con gli informatori, anche inconsapevoli), verso chi compie quel lavoro.


In November c’è la cronaca, c’è il rispetto per le vittime, c’è il senso del lavoro di un’istituzione e la gratitudine verso chi compie quel lavoro


Per esempio, è molto interessante il confronto tra due sequenze molto ravvicinate: da una parte il gran finale vero e proprio, un gran bel pezzo di cinema d’azione e suspense, centrato sull’irruzione delle forze speciali della polizia francese nella casa dei terroristi, ovviamente riempita di esplosivo per impedirne la cattura; dall’altra l’ultimo dialogo tra Fred, il capo della squadra anti-terrorismo, e Inés, l’agente interpretata da Anaïs Demoustier, impegnata in prima linea nelle indagini. Nella prima viene esaltato il professionismo meticoloso dei poliziotti, attraverso il montaggio di Gardette, l’importanza dei movimenti, del sincronismo del corpo speciale che deve muoversi sulle scale come fosse un uomo solo, la pazienza e la cura nella contrattazione con criminali disposti al suicidio; nella seconda invece, quando il lato “militare” non conta, emerge il fattore umano, quello che soccombe alle regole e alle esigenze della giustizia e della politica, nel quale non c’è spazio per i sentimenti e anche le persone si possono tradire in nome della causa. Al posto delle serrate inquadrature c’è un limpido confronto tra attori che è lo scontro tra due modi di intendere la professione, una professione osservata con evidente riconoscenza.


Jessica Chastain in Zero Dark Thirty (2012) di Kathryn Bigelow, storia della caccia e dell’assassinio di Osama Bin Laden


In questo senso, November sta al cinema europeo e al racconto di questa prima parte del secolo XXI come Zero Dark Thirty (la cattura di Osama Bin Laden secondo Kathryn Bigelow) stava al cinema e al mondo statunitense: non solo per scelte formali, estetiche e stilistiche, non solo per il modo con cui il direttore della fotografia Nicolas Loir usa le immagini, i dettagli, le luci per dare l’impressione di tessere di un mosaico che mostra il suo piano generale solo nell’ultima inquadratura dopo quasi due ore di caccia, ma anche per come decide di trattare la cronaca, per come rende cinema appassionante gli elementi basilari del percorso poliziesco, per l’aver dato forma spettacolare al proprio sguardo sul mondo attraverso personaggi centrali nell’arco della vicenda che poi la ragione di Stato decide di mettere da parte.

Certo, il film non è così complesso e non è definitivo, come lo era in un certo senso il film americano, però riesce perfettamente nella sua intenzione di catturare lo spirito di un tempo e di un cinema strettamente correlati l’uno all’altro, senza farne del cinema civile, che solitamente si muove contro il sistema politico che qui invece è assunto come unico possibile orizzonte, abbracciando fino in fondo l’etica e lo sguardo dei protagonisti. Un dato discutibile in termini politici, ma filmicamente impeccabile.